Archivio | aprile 2013

Tassì (o no)?


Pur essendo io un homo automobilisticus dotato di mezzo proprio, accade talvolta che debba utilizzare il taxi. Succede poche volte nell’arco dell’anno, per spostamenti lunghi, solitamente il tragitto casa – aeroporto, quindi con un discreto minutaggio di permanenza. L’input a scrivere questo post mi è sopraggiunto in occasione di un recente utilizzo del taxi, durante il quale alcuni episodi poco piacevoli, mi hanno portato a riflettere sulla mia soddisfazione durante altri viaggi.

Premetto che non parlerò male dei taxisti, che sono dei lavoratori e vanno rispettati, bensì di alcune situazioni e/o episodi per i quali le loro associazioni di categoria o le compagnie che gestiscono il servizio, dovrebbero riflettere e vigilare, tenendo conto di un semplice elemento: il ruolo del taxista è tra i fattori che determinano il gradimento di una città, sia da parte dei turisti che degli abitanti. Insomma, non “Il”, ma “uno dei” biglietti da visita che influenzano il giudizio sulla vivibilità, senza dimenticare che quello svolto dai taxi è pur sempre un servizio, a pagamento, con dei criteri di qualità.

Tornando alle mie (dis)avventure, mi è recentemente occorso di salire su di un mezzo dai requisiti di sicurezza molto bassi: oltre a presentare un quadro strumenti (da appassionato sbircio tutto lo sbirciabile) con tutte e dico tutte le spie accese, appena in movimento proveniva dall’anteriore un poco piacevole rumore meccanico, che poteva alludere a qualche giunto o semiasse. Immaginiamo dunque la serenità di affrontare un viaggio con una macchina che mai avrei voluto guidare fosse stata mia, figuriamoci da passeggero. In più il “nostro” taxista, riceveva una telefonata e guidava allo stesso tempo, senza auricolare. Nel mentre bruciava due semafori gialli, molto tendenti al rosso, attraversando corsi a grande scorrimento. Ora, pur comprendendo le difficoltà di tutti noi a tirare avanti in un momento di crisi, possiamo ritenere sensato che circoli una vettura in quelle condizioni e che il guidatore, che dovrebbe essere un professionista, guidi e telefoni con dei clienti a bordo? La mia risposta è decisamente negativa. Inoltre, volendo “buttarla sui soldi”, sembra inadeguato che il viaggio abbia lo stesso costo, a bordo di una fiammante Skoda, di una Prius o su una Stilo di 12 anni, ampiamente dimostrati.

In altre occasioni è capitato di salire su vetture con i sedili piuttosto sporchi o in ambienti che odoravano parecchio di fumo, segno che i proprietari fumavano all’interno. Ora non vorrei passare per maniaco dell’ordine e della pulizia (più di quanto non lo sia realmente…), ma come affermavo in precedenza, credo che in un paese civile, anche i servizi offerti debbano esserlo, siano pubblici o a pagamento. In altre occasioni, i conducenti avevano una guida piuttosto arrogante e apostrofavano i pedoni o gli automobilisti.

Per fortuna ho viaggiato anche taxi ordinati e puliti, guidati da persone cordiali con cui ho scambiato qualche parola senza dare l’impressione di disturbare. Per questo motivo mi piacerebbe che i taxisti (o tassisti?) potessero frequentare corsi di buone maniere, di inglese e perché no, di primo soccorso, dal momento che la loro presenza nel traffico è praticamente capillare. Invece, capita spesso di notare le innumerevoli infrazioni o la poca gentilezza nel traffico da parte di chi, essendo un professionista della guida, dovrebbe prima di tutto aver acquisito la dote della pazienza e della saggezza, piuttosto che le “regole della giungla”. Parimenti, non ho mai avuto occasione di scorgere le Forze dell’Ordine fermare e controllare un taxi, per qualche infrazione, cosa questa che mi lascia supporre malignamente una sorta di tacito accordo nel lasciar correre. Ribadisco: sono certamente in malafede…

Abbandonando il tono polemico/polemista, bisogna sottolineare che l’industria automobilistica ha sempre posto una certa attenzione al mondo dei taxi, perché svolgono un importante servizio come banco prova di lunga durata, dal momento che circolano in condizioni stressanti per la meccanica. Non è un caso che Mercedes rappresenti il taxi o il “mulo” per eccellenza, costruendo veicoli indubbiamente affidabili, in grado di circolare in tutte le parti del mondo. Fate caso: in qualunque nazione vi troviate, esclusi gli Usa dove Ford è un best seller, i taxi Mercedes sono in maggioranza e molto spesso sono vetture decisamente attempate, ma efficienti. Può apparire paradossale, ma per Mercedes, essere associata a quest’aura da taxi, risulta molto ingombrante e in questi anni sta cercando di investire risorse nel marketing e nello stile affinché i clienti la percepiscano come marchio premium, anche sportivo, meno rassicurante e “anziana” di quanto possa trapelare dall’immagine di taxi-universale. A giudicare dagli ultimi modelli l’operazione sta riuscendo, ma è un processo estremamente lungo.

E la Fiat? Fin dalla 600 multipla o dalle più prestigiose Lancia, passando per le 124, le 131, le Ritmo e così via, il marchio aveva un buon successo tra i taxisti nostrani, che pure hanno apprezzato la Multipla, grazie alle dimensioni contenute all’esterno, allo spazio a bordo notevole e ai motori non particolarmente esosi. Da qualche anno il vuoto di modelli in gamma ha fatto allontanare parecchio i taxisti (come i clienti) dalle vetture Fiat, avendo a disposizione solo le multispazio Doblò o Qubo, che non sono tuttavia automobili “vere” e ci sarebbe necessità qualche modello station wagon. Il vuoto, così come nelle auto civili è riempito dalle sempre agguerrite Ford, Kia, Hyundai, Skoda ed è un peccato vedere disperso un patrimonio di potenziali clienti.

Chissà se in un futuro vedremo anche da parte di Fiat, modelli specifici, come i prototipi sviluppati sin dagli anni ’60 del secolo scorso. Nel frattempo non resta che consolarsi con la filmografia, che non ha mai lesinato sul ruolo del taxista, anzi.

Io non mi sento italiano…


“…ma per fortuna o purtroppo lo sono”, recitava il testo di una delle ultime canzoni di Giorgio Gaber, che intendo citare come spunto per un tema, al quale magari in passato ho già fatto riferimento, ma su cui vorrei tornare. Nei blog, nei forum e nelle discussioni “da bar”, tra appassionati e tra la “gente comune”, conversando di automobili, è praticamente inevitabile che il discorso cada sul “bisogna comprare italiano”, in una commistione di orgoglio e dovere di non “disperdere” capitali in altre nazioni.

E’ un principio questo su cui non dissento seduta stante, ma riconosco che nel corso degli anni il mio pensiero stia progressivamente deviando, a seguito di alcune considerazioni. Premetto che nella volontà di sostenere la propria nazione, anche attraverso una politica del consumo orientato verso  “l’interno”, non ravveda nulla di insensato, purché non si sconfini nell’autarchia o quantomeno nel cieco sostegno di qualcosa che non c’è. Potrò essere smentito, il mio è puramente un parere, ritenendo che certi ragionamenti possano essere applicati in alcuni campi, ma non in tutti. Il mercato e la politica del libero mercato (mi si corregga se sbaglio) fanno sì che esista la concorrenza e che il consumatore possa scegliere ciò che al meglio soddisfa i propri desideri, in relazione a quanto vorrà spendere. Si tratta pur sempre di rispondere ad una domanda con un’offerta.

In campo automobilistico, l’offerta italiana non soddisfa più da alcuni anni le necessità dei consumatori, perché non propone loro una gamma di veicoli “per tutte le occasioni”. Lo ribadisco come in passati post, ma sono davvero numerosi i segmenti lasciati “scoperti” dalle vetture italiane e non si può tacciare di esterofilia chi si orienta verso altri “lidi”, fermo restando che se un prodotto è valido, lo è per natura, quindi sarebbe folle acquistarne uno meno eccellente, per il solo amor di patria.

Uno degli esempi più eloquenti è ravvisabile nel settore delle wagon compatte, un tempo “regno” di Regata, Duna (sì, anche lei), Marea, Palio e già incrinatosi con Stilo Wagon, per poi naufragare del tutto. Se considerassimo sw anche una Croma, saremmo già saliti di prezzo e segmento; inoltre con l’avvento del Freemont, la Croma ha cessato il suo percorso produttivo. In casa Lancia e Alfa Romeo, la tradizione delle wagon era stata consolidata a partire dagli anni Ottanta, per poi svanire del tutto. La 159 è ormai un fantasma, venduto come nuovo e prelevato dagli ultimi stock di produzione. L’interrogativo è: come è possibile che si sia rinunciato a produrre un genere di vettura che ancor oggi, in tempi di crossover e monovolume, “fa reparto” , come si direbbe in termini calcistici? E’ vero, per produrre occorre progettare e per progettare occorre investire e avere i fondi, ma se non si investe, non si produce e non si venderà, dunque non si incasserà. Pur in un panorama caratterizzato da una grande offerta di modelli, molto validi e concorrenziali, sono abbastanza convinto che il consumatore italiano sarebbe disposto ad acquistare una “station” italiana, ma se non c’è, mica può costruirsela in garage? Fiorino Qubo e Doblò, sono multispazio che possono sopperire la domanda di wagon? Credo di no, perché non tutti gli acquirenti possono essere attratti da una forma “furgonata” e gradirebbero linee più automobilistiche.

Lo stesso vale per le berline medie, anche tre volumi, per i crossover (quelli “umani” e non da 5 metri come il Freemont), per il segmento C e per quello B, dove la “povera” Punto è in pista da quasi 10 anni e per la quale non mi sento di affermare che sia meglio di una Polo, una Clio, una 208 uscite lo scorso anno o in questi giorni. Ora io non discuto sui gusti, ma ritengo realmente difficile che una vettura progettata 10 anni fa possa rispondere a standard tecnici, qualitativi, costruttivi attuali, praticamente alla pari con un prodotto fresco. Mi si potrà obiettare che i motori siano moderni e efficienti, ma non credo che un prodotto fresco possa “prendersele” da uno così datato, pur se valido, sia chiaro. Come si fa, se non per ragioni di prezzo, a non scegliere prodotti nuovi e accattivanti, per il solo “dovere” di comprare un prodotto nazionale?

Occorre inoltre ragionare anche sul termine nazionale, poiché sono molte le aziende italiane di componentistica che lavorano per produttori esteri, così come è risaputo che molte vetture del Gruppo Fiat siano prodotte all’estero, dunque con componentistica straniera. Siamo sicuri che comprando una Fiat, anche se prodotta fuori Italia, l’utile generato venga poi investito da noi o continui ad essere impiegato laddove genera ancora più guadagno? E’ indubbiamente una questione controversa, poiché così facendo è evidente che si tenderà a produrre sempre meno in Italia o lo si farà esclusivamente “sponsorizzati” dal governo di turno, dunque quasi a carico dei contribuenti. Le soluzioni sono complesse, ma vanno prese su scala di planning industriale e di visione globale, senza dimenticare che bisogna anche produrre automobili “giuste” ed azzeccate, cosa che la Fiat sa fare, ma in certi segmenti ha (volutamente) trascurato di fare, perdendo clienti, che difficilmente torneranno indietro, rimanendo su vetture straniere, a meno che Fiat non decida di abbandonare quasi tutti i segmenti, fatti salvi quelli delle “piccole”, dove i margini di guadagno esistono ancora e dove il cliente mantiene la percezione di acquistare un prodotto Fiat  al passo con i concorrenti.

Da recente “esterofilo” – sono 3 anni che guido auto straniere – posso affermare a mia “discolpa” proprio l’assenza di un prodotto italiano da confrontare ai miei desiderata, ragionamento che vale anche per altri miei familiari e conoscenti, che in passato hanno (abbiamo) posseduto vetture italiane, ma che poi non hanno avuto un seguito “di successo” presso di noi, lasciandoci la possibilità di orientarci su altri prodotti, ammetto, senza sensi di colpa.

Non si può criminalizzare chi ha preferito una A4 o una Serie 3 a una 159, o chi al posto di una pur valida Giulietta, sceglie una Serie 1, una A3 o una Classe A (senza menzionare la Golf). Lo stesso dicasi per tanti altri modelli, molto meno premium, dove la concorrenza mette sul piatto promozioni allettanti e garanzie pluriennali. Sono consapevole che sia difficile competere con chi produce a costi inferiori ai nostri, ma questo non può diventare l’alibi per ogni insuccesso. E’ altresì utopico pensare che altri costruttori vengano a produrre in Italia, dove in primis sono spaventati dalla burocrazia ed è proprio su questi elementi che bisognerebbe ragionare: trasparenza, fiducia, correttezza, per attrarre chi è perfettamente conscio che da noi si sappia produrre, progettare, ma rinuncia perché teme come poi possa andare a finire.

Gaber, ad un certo punto della canzone ritrova l’orgoglio pensando al Rinascimento e noi dovremmo trovarlo, a prescindere dai leader che urlano, promettono, criticano. Per fare qualcosa “dal basso”, non serve la rete, non serve la democrazia liquida “imposta”, occorre che ognuno di noi si ricordi di essere un cittadino onesto e non “il più furbo”. In Germania sono diffidenti con noi, perché sanno più di noi che viviamo in un paese dalle grandi potenzialità e non ce ne rendiamo quasi conto. Mi piacerebbe che anche i grandi manager dell’industria italiana lo pensassero davvero e investissero i loro soldi e le loro tasse in Italia e noi cittadini le pagassimo davvero tutti. Le auto sono un pezzo di noi, ma un tedesco che compra un’Alfa non è tacciato di tradimento, anzi…

Scurdammoce ‘o passato


Piccola riflessione scaturita da un episodio familiare risalente all’inverno. Venerdì. Nevica in montagna e io mi appresto a salire, come spesso accade nei weekend,  per andare a sciare. Chiacchiero con mia mamma al telefono e lei ad un certo un punto mi domanda: “Sei attrezzato per salire?”. “Cuore di mamma apprensiva che si preoccupa per il suo cucciolo di quasi 40 anni”, penso tra me e me. Le rispondo, ormai ferito nell’orgoglio di appassionato-automobilista-attrezzato,  “Certo! Ho le gomme invernali e la trazione integrale. Non avrò un Land Rover, ma nemmeno una Lambo con le slick!”. A corollario di ciò, aggiungo che si trattava di recarsi in Val Susa e non a Capo Nord…

Al di là del risvolto familiare, magari a tratti noioso, ho iniziato a ragionare su alcuni aspetti, considerando come una trentina di anni fa ci recassimo in montagna, verso località ben più isolate, con una 127, portando appresso semplicemente le catene, che mio padre montava imprecando e che ci consentivano di percorrere alcuni tornanti con fondo sdrucciolevole, mentre gran parte del viaggio veniva compiuto con le coperture estive, non fosse altro perché salvo le chiodate, nessuno montava pneumatici invernali.

Premetto di non voler far apparire belli e sicuri i tempi andati anzi, a rivedere tutto ciò oggi, quasi ci sarebbe da rabbrividire: niente cinture di sicurezza, crash-test, dispositivi di sicurezza (abs, esp) e tanto ancora. Per fortuna è maturata una diversa cultura della sicurezza e abbiamo compiuto passi avanti in molte direzioni: dalla progettazione di vetture più “protettive” a quella (ancora da migliorare) delle strade. Probabilmente per queste ragioni, sembra ormai assodato l’utilizzo di coperture invernali, che hanno soppiantato mediamente le catene da neve, magari più efficaci nel breve per superare un ostacolo, ma nulla in confronto al montare 4 pneumatici in grado di garantire un livello di sicurezza elevato per tutto il tempo in cui si viaggia.

E’ cambiata e non sempre in meglio, la comunicazione dei pericoli e delle emergenze, attraverso la tv e internet, sebbene prevalga talvolta un tono oscillante tra l’allarmismo e il sensazionalismo che guasta un po’ le cose. Mi spiego: se nevica su un’autostrada in montagna, per giunta in pieno inverno, va data sì la notizia, ma senza paragonarla all’Apocalisse. Talvolta e questo è un fenomeno assai frequente al giorno d’oggi, prevale la tendenza da parte di enti gestori ad allertare riguardo ai pericoli al fine, pur giusto, di scaricarsi molte responsabilità in caso di incidenti. Il principio è sacrosanto (la Legge non ammette l’ignoranza), ma in alcune occasioni sembra che qualcuno approfitti della situazione per lavarsi rapidamente la coscienza. Resta il fatto che ci si debba sempre informare e documentare, in primis per la propria sicurezza.

Da qui possono insorgere dubbi e, prendendo spunto dalla domanda che mi rivolgeva  mia mamma, sembra quasi che oggi, pur disponendo di più strumenti rispetto al passato anche recente, ci sentiamo meno adeguati, rispetto ad un tempo cui “improvvisavamo” di più, ma eravamo probabilmente meno protetti. Quello che mi sento di sostenere è che in questo caso “non si stava meglio quando si stava peggio”: in fondo si stava peggio perché non si avevano alternative. Oggi per fortuna esiste una maggiore cultura della sicurezza che non va dispersa, tutt’al più alimentata.

Alla faccia…


In passato vi ho già resi partecipi di quella sorta di “antropologia criminale” di lombrosiana memoria in cui incappo mentre osservo un’automobile, di muso e di coda. Saprete quindi quanto mi attragga lo “sguardo di una vettura”, reso più o meno aggressivo dall’utilizzo della tecnologia a led e dalla possibilità di plasmare i fanali in maniera più duttile, rispetto al passato. Tuttavia, non si vive di sola fanaleria e nondimeno, i designer hanno sempre immaginato frontali o code espressive, anche in passato.

Il pretesto per queste riflessioni è scaturito tempo fa, sfogliando una monografia sulla Bmw e soffermandomi  sui modelli che sin da piccolo colpirono la mia attenzione, ovvero quelli degli anni 70 e 80. E’ chiaro che per me essi siano più importanti in ragione dell’imprinting che ho ricevuto e non me ne vogliano i puristi. Il succo è che a me da bambino le Bmw incutevano quasi timore, a causa di quel loro muso proteso in avanti, da squalo che sta per aprire la bocca, con in aggiunta quella coppia di fari tondi a contribuire all’immagine “arrabbiata”. Molto probabilmente avevo inconsciamente assimilato un messaggio dello stile Bmw, che voleva proporre dinamicità e forza anche da fermo, conferendo un aspetto minaccioso, pur se elegante e privo di fronzoli. Quella sensazione mi veniva trasmessa dalla Serie 3 e ancor più dalla Serie 6, un coupé che ancora oggi mi affascina con la sua linea aggressiva e pulita.

Le Bmw odierne non seguono lo stesso corso stilistico di 30 anni fa, ma conservano e ripropongono uno stile dinamico e possente, per ricordare a tutti la loro appartenenza al marchio, come negli ultimi tempi fanno tutte le Case, proponendo uno stile complessivo di marca. Ad esempio in Audi hanno trovato una propria identità che pone le vetture come oggetti “molto disegnati”, ma dalle forme minimali e pulite: un frontale Audi non apparirà mai “fuori posto”, pur accogliendo un propulsore da 560 cv, ma si darà sempre “un tono”, in ossequio all’understatement tipico del marchio.

Alla Mercedes hanno seguito un percorso di “cambio di identità”, per modificare la percezione che il pubblico aveva in quel frontale, che prima di tutto era “radiatore, stemma e fari (tondi, rettangolari, poi nuovamente tondi)”. Dopo essersi a mio avviso persi nel decennio 1995-2005, gli stilisti della Stella hanno provato a bmwizzare il marchio, andando a rendere più aggressivi e sportivi i frontali di tutte le vetture in gamma, che ora appaiono meno rassicuranti e più dinamici, a mio avviso forse ancora poco puliti, ma certamente gradevoli.

Le “facce cattive” non erano prerogativa di VW, che da buon generalista non ha mai avuto necessità di “spaventare” i clienti, ma negli ultimi anni, grazie al lavoro di supervisione e non solo, svolto da Walter De’ Silva, stiamo assistendo ad un cambio di rotta, nel quale i “musi sorridenti” stanno cedendo il posto a sguardi più accigliati ed espressivi.  Operazione quasi inversa, pur se ampiamente condivisa, a quella che in PSA, versante Peugeot, ha portato ad eliminare la bocca spalancata del leone, che nel corso degli anni stava divenendo piuttosto estremizzato, particolarmente su 207 e 308. In un primo momento lo sguardo felino sarebbe anche potuto essere un bel richiamo al marchio, ma con il passare del tempo e dei modelli, si è finito con l’accentuare bocche e occhi in maniera tanto eccessiva da apparire quasi una caricatura di un leone. Ben venga quindi l’operazione di “pulizia”, che forse ha “tedeschizzato” un poco lo stile, ma ha certamente giovato: 508 e 208 ancor di più sono l’emblema di una bella operazione.

Molti progressi sono stati compiuti da Citroen, che ha anch’essa ricostruito una (bella) identità stilistica di marca, con linee tese, curve, forse “troppo rimarcate”, ma di buona riuscita complessiva. La Renault, dopo una fase di design “tranquillo” e dal gusto molto francese (non è una critica), ha deciso di intraprendere con la nuova Clio, un filone più emozionale, con sguardo un poco incattivito e tagli tesi. Bene così.

Il plauso, prima di giungere al Gruppo Fiat, va secondo me a Hyundai e Kia, sorelle che fanno le cugine, ciascuna con un preciso linguaggio, ben organizzato e con scelte estremamente riuscite su entrambi i fronti. Si intuisce che il gusto che guida il design sia di matrice occidentale, ma non esclusivamente europeo e assistiamo a mio avviso a eccellenti realizzazioni.

Avrei molte “facce” da descrivere ancora, ma concludo con le case italiane, nel cui stile ahimè ravvedo un po’ di confusione o, probabilmente la mancanza di una guida forte e decisa, che indichi una strada definita per ciascun marchio (per quelli ancora degni di esser considerati in vita). Le Alfa più belle dei gli ultimi anni, non sono per me quelle attuali, ma la 147 e la 156 e non per ragioni nostalgiche, bensì per la coerenza stilistica, di proporzioni, forme e aspetto dinamico. Ancora oggi mi piace ravvedere nella A4 berlina di De’ Silva un tratto famigliare comune con la 156 berlina e non c’è nulla di male: era ottimamente proporzionata. MiTo e Giulietta sono fortunatamente “imparentate”, ma credo che il design Alfa potrebbe esprimere più dinamismo attraverso forme più “taglienti”: un’Alfa non sorride o fa gli “occhioni”, ma mostra i denti!

Soprassiedo su Lancia, perché non c’è quasi nulla da aggiungere e arrivo ai “musi-Fiat”, che ormai saranno sempre più i musi della 500, rivisitati e riadattati. Mi piace? No. Ogni auto dovrebbe una propria identità e riprendere i tratti della iconica e sbarazzina 500, pur se commercialmente comprensibili, non mi sembra una buona idea. Già nella 500L l’operazione di stretching e resizing ha contribuito a trasformare un sorriso in un “grugno”, che onestamente non apprezzo molto. Mini, con la Countryman ha compiuto quasi la stessa operazione, ma ha trasformato alcune curve in spigoli arrotondati, riuscendo meglio nell’intento. La Grande Punto aveva inaugurato un corso “Maserati-style”, ripreso dalla Bravo e poi subito interrotto. Proprio la Bravo di Frank Stephenson era secondo me molto efficace nel riprendere e interpretare le linee più semplici della Grande Punto di Giugiaro, ma ormai si parla di 7 anni (di progetto) or sono e poi come si sa, la Fiat ha avuto vicende complesse e non ancora completamente definite. Quel che è sicuro, è che lo stile italiano della Fiat non abbia più sfornato vetture emozionanti dalla 500 del 2007, che è quasi un caso a parte, mentre se si va a scavare, credo che le più significative Fiat recenti restino Barchetta e Coupé degli anni 90. A proposito, andate a cercare chi sia l’autore della Coupé. Vi aiuto? Ha lavorato in Baviera per mooolti anni.

Il viaggio tra le mille facce delle auto potrebbe proseguire all’infinito, perché molte sarebbero ancora quelle di cui vi potrei raccontare, ma voglio infine sottolineare la mia stima e il rispetto per quei designer che ogni giorno le creano, rendendo emozionante quell’agglomerato di materiali che è l’automobile.

Rendita di posizione


Uno dei giochini che mi capita di fare mentre sono fermo in colonna, ovvero osservare gli altri automobilisti, cosa che credo capiti anche ad alcuni di voi, mi soffermo spesso e un po’ mi stupisco, nel notare la posizione di guida. Non ho intenzione di insegnare nulla a nessuno, ma non riesco a trattenermi dal pensare che  la posizione di guida sia legata alla facilità di eseguire comandi e manovre, ergo influisca sulla sicurezza. Di tutti. Non ho frequentato corsi di guida, ma leggendo e confrontandomi con  qualche istruttore, ho avuto modo di apprendere alcuni rudimenti, sufficienti per cercare di occupare il sedile in maniera meno scorretta possibile.

Una delle posizioni più “gettonate” tra quelle “spiate”, è quella che definisco “alla Fast &Furious”, poiché nella nota e poco veritiera (automobilisticamente parlando) serie, la posizione che assumono i “ganassa” di turno è semisdraiata, con lo schienale reclinato e le braccia, anzi il braccio (l’altro non serve per curvare, al massimo ci si appoggia sopra) praticamente disteso  e posto “alle 12” sul volante. Al di fuori del fatto che questi guidatori si sentano “molto fighi”, è probabile che il loro viaggio tipico sia molto breve e rettilineo, perché non ci si spiega come si possa curvare in quella posizione. A dire il vero un modo esiste e consiste nello staccarsi dallo schienale, rimanendo praticamente appesi al volante. Immaginiamo a questo punto cosa possa accadere durante una manovra di emergenza. Mi è successo di sedermi in vetture con sedili regolati in quella posizione e ricordo il mio smarrimento, dovuto ad una lontananza abissale dal volante, nonostante io sia alto 1.90 m. ,dunque non guidi particolarmente “incollato” al volante.

Agli antipodi del fastandfuriousista, vi sono i guidatori che siedono con il volante talmente vicino al corpo da sembrare il ciondolo di un collier. Anche in questo caso, mi domando come ci si possa sentire a proprio agio in una posizione del genere ed è probabile che questi automobilisti abbia poca sicurezza al volante, al punto di volersi accomodare “a prua” per vedere meglio ciò che precede. Inoltre, nelle odierne vetture dotate di airbag, l’essere estremamente  vicino al volante è caldamente sconsigliato dagli stessi costruttori, quindi la posizione a schienale verticale e braccia completamente piegate rende impossibili rapide manovre, proprio a causa della scomoda postura. Si rischia anche in questo caso, di trovarsi “appesi” al volante, risultando in balìa dello stesso. Non ultimo, qualora si indossi (purtroppo sono in molti a non farlo ancora) la cintura di sicurezza, si vanifica il suo effetto, rischiando di farla scivolare via dalla spalla, scivolamento che invece nel caso della seduta-sdraio rischia di essere di tutto il corpo o, quanto meno del tronco che non viene quasi toccato dalla cintura già in fase normale.

Ulteriori ragionamenti varrebbero per la posizione delle mani sul volante e per come si effettuano svolte o scarti laterali. Ovviamente è evidente che nessuno possa o debba guidare in posizione F1 o rally, con le mani perennemente alle “10 e 10” o alle “9 e 15”, specie nelle lunghe code, tuttavia occorrerebbe sempre sapere “dove mettere le mani”. Uno degli errori, magari spesso persino inconsapevoli, visto che pochissimi insegnano davvero a guidare e spesso la tecnica viene appresa per “emulazione”, consiste nel tenere la mano sinistra a centro volante, posizione che metterà sicuramente in risalto il tricipite, ma non aiuterà nella presa e nella prontezza di manovra, sia verso destra, che verso sinistra.

Ancor peggio, se così può dire, sarà tenere il volante “da sotto”, magari con la sola mano sinistra, alla “Tanto sto procedendo spedito e in rettilineo: mica devo curvare”, con le stesse problematiche della mano posta in alto. Ci sono anche guidatori che impugnano le razze come fossero un manubrio o una cloche, sottovalutando i rischi di movimento anche in questo caso. Insomma, la posizione corretta forse la si mette in pratica a scuola guida e poi sembra quasi sia da “imbranati” quando si è con gli amici. Certo, molto dipende dalla disinvoltura e dalla sicurezza con cui ci si muove, elementi  che andrebbero insegnati fin dalle prime guide. Lo stesso vale per come vengono mosse le mani sul volante quando si svolta o quando si effettuano rapide manovre. Può sembrare ridicolo, ma certe sequenze e certi automatismi possono davvero cambiare l’esito di molte situazioni.

Come spero si sia compreso, non è mia intenzione impartire lezioni di guida, per le quali esistono istruttori e scuole altamente preparate e con le quali già le scuole guida dovrebbero partecipare per offrire accurate nozioni, visto che “portare l’automobile”, è sì tutto sommato facile, ma guidare è ben diverso e non significa “staccare il tempo sul giro”, bensì non costituire un pericolo per gli altri. Ho pagato in gioventù e in prima persona un prezzo piuttosto caro, per fortuna non carissimo, di un grave sbaglio e non intendo fare la morale agli altri, bensì portare una testimonianza.

Da appassionato  e da sportivo dilettante non ho mai smesso di documentarmi e di cercare di apprendere sulla scia di un ragionamento:  “Se nello sci devo imparare la tecnica, nel nuoto serve imparare la tecnica, nel tennis lo stesso e così via, perché non dovrei farlo nella guida?”.  Sono interrogativi forse retorici e un poco banali, ma concetti in cui credo e sui quali si dovrebbe cominciare a ragionare già dalle scuole, con forme educative serie, per raccogliere buoni frutti da adulti. A proposito, come stavate seduti a scuola? Perché, sapete, la posizione è importante…